Alla luce del giorno, ma all’oscuro di tutto e tutti, nel pomeriggio del 4 maggio una notizia ha sconvolto Roma, e in generale il calcio italiano. José Mourinho sarà, dal prossimo giugno, il nuovo allenatore della Roma.
L’annuncio ufficiale è arrivato qualche ora dopo quello quasi lapalissiano dell’addio di Fonseca alla fine della stagione. Per qualche ora tifosi ed opinionisti si sono chiesti perché dare una non notizia un paio di giorni prima una semifinale di ritorno di Europa League (seppur ampiamente compromessa dal risultato dell’andata), il dubbio si è risolto poco dopo.
La notizia ha avuto una risonanza mediatica impressionante. José Mourinho, nel bene o nel male, è un personaggio conosciuto da tutti, persino quelli che conoscono poco il calcio. È stato uno degli allenatori più influenti degli ultimi 15 anni di calcio ed un personaggio emblematico, a volte contraddittorio, ma di certo centrale nel racconto di questo sport.
Il suo ritorno in Italia, ad 11 anni dal suo addio al culmine della sua carriera, come vincitore di un Triplete sulla panchina dell’Inter e l’aura addosso dell’invincibile, del predestinato, dello Special One (appunto), è stato accolto con sorpresa, stupore e con eccitazione, soprattutto dalla classe giornalistica, che lo idolatra principalmente per le sue doti di comunicatore, per l’imprevedibilità di ogni sua conferenza, per il modo unico in cui concentra le attenzione su di sé per settimane e settimane, dividendo il pubblico fra chi semplicemente lo ama, o chi semplicemente lo odia.
Finora si sono lette poche considerazioni sul Mourinho allenatore. Sull’uomo di campo, sulle sue idee, ed è giusto fare un piccolo recap di quello che è successo nella sua carriera oltremanica.
Mourinho dopo l’Inter
Jonathan Wilson, firma autorevolissima del Guardian e autore de “La Piramide Rovesciata”, ai microfoni de “Il Terzo Uomo” con Michele Tossani e Gabriele Gatti, ha dato un’origine chiara allo sviluppo tattico delle idee di Mourinho. Per il giornalista inglese il gran rifiuto del Barça di assumerlo nel 2008, e di preferire a lui Pep Guardiola, lo ha messo automaticamente dall’altra parte della barricata: da quel momento lui avrebbe fatto tutto il contrario di quello che un allenatore come Guardiola avrebbe fatto. Lui avrebbe dimostrato al Mondo che non c’era un solo modo per vincere, e il migliore non era quello del Barça.
Se il gioco di posizione catalano-olandese sembrava la strada per raggiungere il successo, lui ha risposto aggrappandosi a un gioco reattivo, difensivo e pragmatico, plasmato sulla fiducia massima nei propri giocatori e sullo studio maniacale degli avversari. La sua vittoria più grande, la leggendaria semifinale di Champions proprio contro il Barcellona di Guardiola, gli ha dato forza e slancio per vincere il Triplete, e per assecondare questa sua concezione.
Una volta approdato al Real Madrid l’antitesi si è fatta ancora più forte, e, come raccontato magistralmente da Paolo Condò nel suo “I duellanti”, la guerra Mou-Guardiola ha preso naturale forza da quella storica fra le due società più importanti di Spagna (e in quel momento del Mondo), arrivando a momenti di tensione unici.
Da lì in poi Mourinho non ha cambiato filosofia, ha lasciato il Real Madrid vincendo un campionato al suo secondo anno, criticato per il suo eccessivo difensivismo nel terzo anno (storicamente il più difficile per il portoghese) e per aver rotto con tutto e tutti negli spogliatoi.
Ad aspettarlo c’era poi Chelsea, casa sua. Tornato a Londra, ha accentuato la sua idea di gioco difensivo. Se vogliamo prendere una partita emblema dell’evil Mou di quel periodo, è giusto riferirsi alla sfida contro il Liverpool di Brendan Rodgers ad Anfield.
Una partita resa celebre dal terribile scivolone di Gerrard, che pregiudicò il ritorno alla vittoria del titolo dei Reds.
In quell’occasione il Chelsea vinse 0-2 con un 27% di possesso palla, un baricentro basso, distruggendo il gioco degli avversari ed affidandosi esclusivamente alle transizioni offensive. L’anno dopo Mou tornò al trionfo in campionato continuando a giocare così, puntando tantissimo sui risultati casalinghi (imbattuto a Stamford Bridge, solo 9 reti subite in 19 partite) e dando la sensazione di poter prevedere il futuro di ogni partita, anticipando tutte le mosse dei colleghi allenatori e muovendo i fili del campionato più prestigioso e ricco d’Europa come un vero e proprio burattinaio.
Le prime difficoltà
Le stagioni di svolta della Premier (e quindi indirettamente di Mou) sono le due seguenti. Klopp arriva a Liverpool, Pochettino si afferma al 100% al Tottenham, Guardiola si prende il Manchester City, Conte prova ad esportare la sua filosofia di gioco al Chelsea, Ranieri vince a sorpresa la Premier League con il suo Leicester.
Mourinho viene esonerato dopo un inizio di stagione imbarazzante, e dopo una brutta sconfitta proprio contro il Leicester dell’antico nemico Ranieri, dando la sensazione di non essere più al passo con i tempi. Il calcio sta andando nella direzione opposta a quella che lui aveva inteso. A dieci anni di distanza dai famosi duelli con Guardiola il catalano non ha perso un pizzico del suo appeal, anzi nell’esperienza tedesca ha affinato ancora di più il suo gioco, l’ha adattato ad un’altra filosofia, ed è pronto a cambiare in calcio inglese, mentre Mourinho sembra scarico, logoro, pieno di risentimento e rancore.
La chiamata del Manchester United nel 2016-17 per questo motivo sembra una manna dal cielo per il portoghese. Lo United del dopo Ferguson ha inanellato disastri su disastri, ma ha la disponibilità economica per attaccare il mercato e portare a casa Ibrahimovic, Mkhitaryan e Pogba. Alla sua prima partita da manager dei Red Devils Mou si prende la rivincita sul Leicester di Ranieri e vince il Community Shield, dopodiché sprofonda in un campionato complicatissimo aggrappandosi all’ancora di salvezza europea, vincendo la prima Europa League/Coppa UEFA della storia dello United, diventando il primo a vincere due volte, Coppa UEFA e Champions League.
La finale contro il brillante Ajax di Bosz fu decisa da una serie di episodi scaturiti da duelli aerei dominati, in particolare da Fellaini, un po’ un emblema di quello che Mourinho cercava nei suoi giocatori. Degli strumenti utili per fargli vincere le partite, i trofei.
Più gli anni passano, però, più Mou sembra un uomo d’altri tempi. I suoi continui litigi con Pogba (lui sì, l’emblema del giocatore moderno, attivissimo sui social media, indipendente dal punto di vista comunicativo) lo rendono quasi il vecchietto che non capisce dove il mondo stia andando. Nel frattempo il perenne nemico Guardiola conquista il titolo di campione d’Inghilterra superando per due volte il record di punti della storia della Premier.
Tottenham: All or Nothing
La carriera di Mourinho segue una serie di costanti che si ripetono. Quando sembra toccare il fondo, quando sembra che non possa rialzarsi se non ridimensionando totalmente le proprie aspettative, arriva la sorpresa. Con stupore infatti è arrivato il lavoro al Tottenham, con un contratto stratosferico: 17 milioni di euro l’anno.
Abbiamo avuto tutti la fortuna di aver seguito buona parte della prima stagione del Tottenham di Mourinho dall’interno grazie alla magistrale serie tv prodotta da Amazon, “All or Nothing“. Nella seconda stagione della serie i presupposti principali erano quelli di seguire la gloriosa prima avventura del Tottenham (finalista di Champions) nel nuovo stadio, guidato da Pochettino. Il caso ha voluto che si trasformasse in realtà in un mega documentario sul modo in cui Mourinho gestisce le sue giornate in funzione del suo lavoro e di come orchestra il lavoro di squadra.
Ci sono anche dei momenti clamorosamente comici come questi
Il risultato è stato più che deludente.
Qui il Tottenham è in vantaggio contro il City, e in quel momento era pure primo in classifica. Concentrandovi sui movimenti di Sissoko e Hoijberg noterete come Mourinho voglia controllare i mezzi spazi praticamente creando una linea difensiva a 6
Il passaggio da un gioco offensivo e brillante, ad un gioco iperdifensivo, è stato shockante per i giocatori del Tottenham. Mourinho ha accentuato i problemi mettendosi subito sul naso Dele Alli, e dopo un inizio 2020-21 folgorante, il declino è stato inesorabile, evidente, sottolineato dall’incredibile eliminazione agli ottavi di finale di Europa League per mano della modesta Dinamo Zagabria.
Mourinho è stato esonerato, lasciando il Tottenham al settimo posto in classifica, ancora virtualmente in corsa per il quarto posto, ma con 4 partite proibitive all’orizzonte (Leeds, Leicester, Wolves e Aston Villa).
All’improvviso la Roma

Una profetica immagine di Mourinho risalente al 2010. Allenava l’Inter.
Se siete arrivati fino a qui quindi avete letto la storia di un allenatore con un passato prestigioso ma con un presente preoccupante. Qualcuno parlerebbe di un professionista in declino e qualcun altro sottolineerebbe i 3 esoneri consecutivi. Dunque perché esaltarsi?
La Roma in questi anni è sempre andata alla ricerca di un progetto che si basasse sullo sviluppo di un’identità di gioco chiara, moderna e attraente, basandosi su investimenti sostenibili e principalmente, quindi, sul player trading. Questa è stata la direzione presa con Luis Enrique, Zeman, Garcia, Di Francesco e Fonseca. Se vogliamo, l’unica eccezione è stata fatta con il ritorno di Spalletti, quando i giallorossi dovevano gestire l’addio di Totti ed avevano una delle migliori squadre degli ultimi anni (tanto da totalizzare 89 punti nel campionato 2016-17).
Ognuno di questi potenziali progetti non ha portato a dei successi, bensì, a dei continui reset, interrotti a volte da risultati epocali (ma quasi del tutto casuali, come le due semifinali europee) e a volte da imbarcate colossali (l’ultima, quella contro lo United).
I Friedkin hanno probabilmente voluto premere anche questa volta il pulsante, non affidandosi più a un’idea di calcio futurible ed innovativa (come poteva essere, ad esempio, quella di Sarri) ma ad un uomo forte che potesse arrivare in una piazza demotivata, acerba, continuamente sconquassata e terremotata, con tutto il peso dei suoi trofei e del suo passato.
La proprietà americana non ha scelto la proposta di gioco, ma il leader che potesse affrontare l’immensità di problemi quotidiani che soverchiano Trigoria con semplicità, quasi con gusto.
I tifosi della Roma hanno assistito alla trasformazione quasi fisica di ogni allenatore arrivato a Roma in questi anni.
Luis Enrique arrivò promettente e pieno di energia, se ne andò chiedendosi “Cosa ho fatto per meritarmi questa merda?”
Rudi Garcia rimise la “chiesa al centro del villaggio” costruendo una Roma emozionante e competitiva, lasciò la nave depresso e derelitto.
Di Francesco arrivò come uno dei più promettenti allenatori del panorama calcistico italiano, e non ha mai più rivisto la luce dopo essersi scottato guardando il bruciante sole di Roma-Barcellona 3-0.
Per chiudere con Paulo Fonseca, arrivato come una sorta di Matthew McConaughey lusitano, adesso è sempre più ombroso e oscuro, sempre più restio a rispondere alle domande, sempre più invecchiato fisicamente, sempre più demotivato, pur mantenendo un applombé e una signorilità che gli fanno e gli faranno sempre onore.
Guardando i precedenti verrebbe da dire che Roma e la Roma mangino le persone promettenti ed ambiziose. La gente che vuole fare il proprio lavoro senza avere i bastoni fra le ruote. Maurizio Sarri sarebbe andato verso quella direzione, probabilmente. La sua proposta di calcio era decisamente più moderna, forse persino più affine alla rosa attuale dei giallorossi, ma le sue precedenti esperienze italiane ci hanno dato un’infarinatura di come gestisce la comunicazione il tecnico toscano. Con lui o scoppia l’amore (come a Napoli) oppure se si comincia male la fine è già scritta, e di fronte a certe uscite mediatiche un po’ infelici neanche un trofeo può migliorare la situazione.
I Friedkin sono stati fin dall’inizio attenti a sentire gli spifferi di Roma. In un ambiente che si lamentava dell’assenza perenne di Pallotta, hanno scelto di stabilirsi con dimora fissa nella capitale, seguendo la squadra ovunque. Ad un ambiente che chiedeva il ritorno di un vecchio stemma, una tradizione, hanno restituito dalla prossima stagione la possibilità di poter vedere di nuovo quel simbolo sulle maglie (vestendosene loro per primi).
Così, ad un ambiente che sembra allergico alla pazienza e all’attesa, due caratteristiche che il gioco di Sarri avrebbe irrimediabilmente richiesto, hanno risposto con un allenatore navigato, che ha vinto più di quanto chiunque abbia allenato la Roma abbia mai fatto in carriera (negli ultimi 25 anni), e che non rifiuta lo scontro, anzi lo cerca, che non vuole la pace e il silenzio a sé, ma si esalta sentendo il rumore dei nemici, che non solo è abituato alle pressioni, ma anzi le desidera, per avere una motivazione in più, per creare un nemico, un mostro da combattere e da sconfiggere.
Nell’Inferno che è diventata la Roma, i Friedkin hanno scelto l’uomo che per il calcio – negli ultimi anni – ha simboleggiato più di tutti il “Diavolo”, il grande manipolatore, il villain: José Mourinho.
Domande sul futuro
Ovunque è andato, Mou ha quasi sempre richiesto (ed ottenuto) grandi giocatori, facendo sborsare ai suoi presidenti milioni su milioni. 267 spesi nel suo secondo triennio al Chelsea, 430 spesi nel suo triennio allo United, 108 in una sola stagione al Tottenham.
Tutto fa pensare che la Roma non avrà queste disponibilità, pur con il Financial Fair Play sospeso. Qui la domanda sorge spontanea: è Mourinho ad aver capito di dover ridimensionare le proprie aspettative sulla costruzione di una rosa, o i Friedkin non hanno più voglia di aspettare e decideranno di investire con più decisione sul mercato?
Di certo il portoghese avrà avuto delle rassicurazioni, fra queste la possibilità di scongiurare cessioni eccellenti. Mancini, Pellegrini, Zaniolo, Cristante, Spinazzola ed in parte El Shaarawy sono una base giovane ed italiana dalla quale ripartire; fra i giocatori con più mercato spicca Veretout, ma il francese è probabilmente l’unico centrocampista veramente mourinhiano che la Roma ha, e con un reparto che dovrà essere rivoluzionato ripartire con la cessione dell’ex Viola sarebbe un brutto colpo.
Mourinho quasi sicuramente ripartirà cercando di dare fiducia alla squadra dalla difesa. Oltre all’ovvio investimento che bisognerà fare in porta, lo Special One ritroverà Smalling ed è probabile che a lui si affiderà per ripartire, con Ibanez e Kumbulla sullo sfondo da far crescere.
Dal punto di vista tattico non sarebbe impossibile continuare a vedere la Roma schierata con una difesa a 5, con un’identità definitivamente cambiata: una squadra che si abbassa per creare lo spazio in transizione, attaccabile con le sue armi migliori: Spinazzola e Zaniolo su tutti.
Si apriranno dei capitoli importanti però sui 3 giocatori con più esperienza: Dzeko, Mkhitaryan e Pedro. Il bosniaco è stato spesso vicino a far le valigie, ma dovrà cominciare a pensare al finale della sua carriera… l’arrivo di Mourinho potrebbe dargli la possibilità di finirla a Roma, con un allenatore dal curriculum importantissimo che, probabilmente, parlerà con lui prima di tutti, per tastarne gli umori.
Mkhitaryan e Pedro hanno invece avuto un’esperienza con il tecnico lusitano, hanno vinto sì, ma hanno avuto anche grossi problemi. Entrambi voluti fortemente, entrambi pagati profumatamente, entrambi decisivi in determinati momenti, entrambi scaricati poi, con parole forti. Con il probabile ritorno di Kluivert (da sempre un pallino di Mou) e Under, il portoghese è a un bivio: ricucire i rapporti, e ripartire da giocatori con esperienza e leadership, o affidarsi a giocatori più giovani, da plasmare a suo piacimento.
Ci sarà tempo e modo per parlare di mercato, insomma, ma anche il tempismo con cui è stata annunciata la notizia la dice tutta sulla volontà dei Friedkin: prima del “liberi tutti”, prima di andare a giocare gli Europei, questo è quello che vi aspetta. Qualcuno vi osserverà, anzi, lo fa già da ora.
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